I dipendenti pubblici che, dopo aver conseguito il diritto alla pensione di anzianità, optino, senza soluzione di continuità, per la prosecuzione dell’attività lavorativa in regime di part-time, non potranno conseguire il diritto alla pensione piena durante tale attività.Dovranno accontentarsi di percepirne una parte, oltre allo stipendio, con il limite di non superare l'ammontare della somma spettante al lavoratore che a parità di condizioni presta la sua attività a tempo pieno. In sostanza, ciò è quanto afferma la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 4900 del 27 marzo 2012 che accoglie il ricorso presentato dall’INPS.
La vicenda riguarda una lavoratrice dipendente del settore pubblico che aveva usufruito della disciplina ex L. n. 662/1996, art. 1, c. 185 per ottenere la conversione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, con diritto a ricevere la pensione di anzianità in misura integrale, così come deciso dalla Corte d’Appello di Milano. Contro tale pronunzia ricorre l’INPS per due ordini di motivi. Innanzitutto sostiene che il sistema di cumulo integrale non è estendibile nei confronti di coloro che, in forza di una specifica disciplina di legge, conseguono il trattamento pensionistico di anzianità senza cessare l’attività lavorativa, ma semplicemente trasformando il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. L’INPS, tra l’altro, ritiene che la peculiare disciplina concernente i dipendenti pubblici, che consente la prosecuzione del rapporto in deroga al principio generale che prevede la cessazione dell’attività lavorativa per accedere alle pensioni di anzianità, è fonte di un vantaggio insito nel fatto di conservare lo status di dipendente nell’ambito del rapporto di pubblico impiego. Situazione non omogenea a quella del pensionato, che deve invece risolvere il rapporto di lavoro per avere diritto alla pensione ed eventualmente reperire nuova attività lavorativa per avere diritto al beneficio del cumulo.
Dapprima la Corte ripercorre le varie tappe legislative che hanno disciplinato nel corso degli anni il regime del cumulo tra pensione e reddito (di lavoro dipendente) culminate, all'interno di un percorso che si può definire di "liberalizzazione" con il varo della legge n. 133 del 2008 (art. 19), a favore della compatibilità tra reddito e pensione. Al riguardo, si precisa che la nuova disciplina non si estende anche al pubblico impiego, per il quale continua a operare il regime di incumulabilità già fissato dal D.P.R. n. 758 del 1965, art. 4. Ciò premesso, la Corte afferma che la norma contenuta nella L. n. 662/1996, art. 1, c. 185 deve qualificarsi come eccezionale, avendo portata derogatoria rispetto ai principi generali in tema di incumulabilità tra pensione di anzianità e redditi di lavoro e prevedendo la possibilità di cumulo sia pure limitato. Proprio per tale carattere di eccezionalità, che non consente alla normativa successiva di carattere generale di incidere in senso ampliativo sulla misura del cumulo parziale, deve essere collegato anche alla circostanza che il conseguimento del trattamento pensionistico, sia pure ridotto, non è subordinatoalla cessazione dell’attività lavorativa. Alla luce di quanto finora illustrato è possibile affermare che non possa trovare spazio alcuna censura sul piano costituzionale per irragionevole permanere della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico, in quanto la normativa generale successiva non è applicabile alle ipotesi del particolare pensionamento anticipato, rappresentata dal caso di coloro, che una volta acquisito il diritto alla pensione di anzianità sono passati al regime part-time senza interruzione del rapporto lavorativo. Costoro, infatti, continuano a lavorare percependo una parte di pensione e una di stipendio, con esplicita previsione che la somma dell’ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti part-time non possa in ogni caso superare l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno.
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