La pubblicità su internet può essere fatale al contribuente che mente al Fisco: essa infatti può concorrere, unitamente ad altri elementi, alla qualificazione dell’attività svolta dall’azienda ed essere quindi utilizzata come prova.
E’ quanto emerge da una recentissima sentenza della sentenza della Corte di Cassazione. Precisamente, dalla numero 5822 del 13 aprile 2012.
I fatti di causa hanno avuto ad oggetto un rimborso IVA richiesto da un’azienda per l’anno 2006 e negato dall’Amministrazione Finanziaria, la quale a sostegno della decisione adduceva che la contribuente aveva effettuato operazioni esenti da imposta (ex articolo 10, D.P.R. 633/1972) e non operazioni imponibili.
Dopo il giudizio in C.T.P. chiusosi in favore della contribuente, la vicenda proseguiva davanti alla C.T.R. di Bari che, pronunciando sull’appello dell’Agenzia delle Entrate, riformava la decisione impugnata, ritenendo legittimo il diniego al rimborso. La sconfitta in appello ha infine indotto la società contribuente ad adire il Supremo Collegio di Piazza Cavour.
In Cassazione, la ricorrente ha, fra l’altro, lamentato l’erroneo operato dei giudici merito, laddove avevano inquadrato l’attività svolta dalla stessa, tra quelle che danno luogo ad operazioni esenti IVA, esattamente qualificandola “di gestione residenza, assistenza e cura per anziani”, mentre, in effetti, l’attività svolta si concretizzava nella gestione di una “casa per ferie”, avente natura essenzialmente imprenditoriale, pertanto imponibile ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.
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