Stati Uniti, Francia, Italia, Germania, Inghilterra e Spagna hanno ieri iniziato una cooperazione internazionale contro l’evasione fiscale. Quella dei grandi evasori, che per essere combattuta richiede un impegno che vada al di là delle singole amministrazioni nazionali, dato che sempre più spesso si nutre di schemi elusivi che hanno ramificazioni ai quattro angoli della terra passando per i più remoti e opachi paradisi offshore.
Sulla spinta dell’amministrazione americana i cinque stati europei si sono accordati per aderire al Fatca, ovverto il Foreign Account Tax Compliance Act, una legge Usa promulgata nel 2010 che dovrebbe garantire migliori risultati nei confronti della lotta e dissuasione dall’evasione fiscale. Le nuove norme entreranno in vigore nel 2013 e nel frattempo l’amministrazione a stelle e strisce si sta preocupando di allargare in più possibile il loro raggio d’azione, tramite accordi internazionali. In questo senso va inserito l’accordo di ieri, primo passo di un’alleanza transanzionale tra Paesi con una buona o alta soglia di evasione – quale ad esempio l’Italia – ne contempo afflitti da problemi di bilancio statale e debito pubblico, desiderosi quindi di recuperare la maggior quantità di gettito, anhe a fini di equità fiscale. L’accordo di ieri è ancora i primo passo ed è di tipo politico.
Cosa diventerà nella pratica non è stato ancora definito, ma già si sa che dovrebbe velocizzare lo scambio di informazioni finanziarie tra i vari paesi, applicando una sorta di simultaneità tra richiesta e invio. In sostanza minimizzare i tempi di attesa e i costi dell’ottenimento delle informazioni, e rendere automatiche le procedure di invio di dati a livello internazionale, che adesso sono ben lungi dall’essere tali, mediante l’adozione di uno schema omogeneo di trattamento delle informazioni. Parlare la stessa lingua, e rispondersi immediatamente. Alle linee generali siglate ieri dal ministero dell’Economia italiano e dai corrispondenti dicasteri dei vari Paesi seguiranno nei prossimi mesi i dettagli attutivi da passare alle varie amministrazioni finanziarie, l’Agenzia delle Entrate guidata da Attilio Befera, ma è chiaro fin da ora che questi accordi avranno un impatto sull’organizzazione delle banche, le depositarie delle informazioni sensibili, come ricorda in un intervento anche la società di consulenza PriceWaterhouseCooper, forte di una divisione che si occupa proprio di risolvere i problemi fiscali della propria clientela: “In particolare, tutti i soggetti finanziari non statunitensi (Foreign Financial Institutions – FFI), quali istituti di credito, broker, trust, hedgefunds, società di private banking, fondi, compagnie assicurative e asset manager, che detengono e vogliono continuare a detenere rapporti finanziari di fonte Usa, in conto proprio o di terzi, dovranno sottoscrivere un agreement (accordo, ndr) con le autorità fiscali americane (Internal Revenue Service – IRS) impegnandosi a comunicare i nomi e le movimentazioni dei potenziali evasori statunitensi intestatari di un conto presso il loro istituto”.
Gli Stati Uniti, vedi i pressing sulle banche svizzere Ubs e Julius Baer, stanno usando tutti i metodi per scovare i propri connazionali non in regola col fisco, e poco importa se quest’ulteriore azione inciderà sui costi delle banche. Sul fronte italiano l’accordo segna l’inizio di una maggiore cooperazione a livello internazionale che si spera porterà ad altri accordi dopo il rifiuto di siglare un patto con la Svizzera per il recupero delle somme illegalmente evase senza toccare il segreto bancario rossocrociato a differenza di quanto fatto da Germania e Inghilterra. Resta da dire che, stando alle comunicazioni dell’Agenzia, nel 2011 nulla di rilevante è cambiato nei confronti dei paesi delle varie black list (gli opachi paradisi fiscali) e, se è corretto fare accordi tra economie trasparenti, l’auspicio è sempre quello di depennare sempre più stati dall’elenco di quelli chiamati “canaglia”.
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